PROFESSIONISTI | 17/07/2017 | 07:52 Fra Saronni e il Tour de France non è mai stato amore. Carlo ride. «Diciamo che a papà è sempre piaciuto il Giro d’Italia. È cresciuto guardandolo alla televisione, parlandone in casa. E da corridore è stata la sua corsa dei sogni». Erano altri tempi, si dice così. Negli anni Settanta e Ottanta le squadre italiane difficilmente investivano tanti soldi (ci volevano dai 60 ai 100 milioni di lire) per andare al Tour. E fra Tour e Giro non c’era il divario che c’è oggi, a livello di eco internazionale. Il primo Saronni il Tour lo corse una volta sola, nell’87, l’anno della doppietta di Roche. Beppe si ritirò dopo tredici tappe, quando la corsa passava da Lourdes. Si fece portare alla stazione di Pau e prese il primo treno per l’Italia. Chiuso.
Il secondo Saronni è Carlo, nato nel 1984, quando la carriera di Beppe cominciava la parabola discendente. «Ho un vago ricordo di quando papà faceva il corridore, ho in mente quando usciva a fare allenamento con i suoi compagni, io aspettavo il suo ritorno perché facevamo assieme un po’ di strada, mi insegnava ad andare in bici». Anche da grande Carlo ha fatto un po’ di strada nel mondo di suo padre, e oggi è il team manager della UAE, il più giovane team manager del World Tour. «Ho provato a correre anch’io. La passione ce l’avevo, mi mancavano le qualità. Ci ho provato lo stesso, ma già da dilettante avevo capito che non sarei mai diventato un campione: al massimo avrei potuto correre a supporto di un capitano. Nel 2008 facevo uno stage con la Lampre, presi la mononucleosi, e insomma quella fu la scusa. Mi proposero un ruolo diverso nel team, e presi immediatamente un’altra strada». Carlo ha studiato da perito meccanico, il suo vero talento era proprio lì. «Mi sono iscritto anche a ingegneria informatica, e anche se non ho finito gli studi mi sono serviti. Ho sempre smanettato tutto il giorno, da quando mi ricordo. Foto, video, contenuti media, tutte le novità possibili della tecnologia, sistemi informatici. Sono portato per quella roba lì». Prende in mano il sito della Lampre, poi entra nell’ufficio stampa. Quest’anno, quando il cuore della squadra è stato trapiantato nel nuovo progetto UAE - esperienza italiana e capitali di Abu Dhabi - Carlo è diventato il nuovo team manager. «E insomma alla fine di Tour ne ho fatti più io di papà. Io ho cominciato nel 2009, e questa è la prima volta nel nuovo ruolo. Ma il Tour l’ho sempre seguito. Quando ero un ragazzino il mio corridore del cuore era Indurain».
Carlo vive con Ilaria a Besozzo, in provincia di Varese. Nella stessa corte abita sua sorella Gloria con Ezio, che qui al Tour guida il bus della UAE. Come dire, tutti squadra e famiglia. «Questa è davvero la mia famiglia. Anche perché ho visto tutti i lati di questo lavoro, diciamo che mi ci sono avvicinato gradualmente. Con papà ci siamo divisi i compiti: lui fa il general manager, segue maggiormente il discorso contrattuale e amministrativo. Io sono più impegnato sul campo».
Un’avventura nuova in tutti i sensi. La squadra è nata tardi per le note vicende - c’erano già i corridori quando il progetto cinese è naufragato e fortunatamente Mauro Gianetti ha trovato la soluzione degli Emirati - ma tutto è finito bene. «C’è stata un po’ di frenesia iniziale, in effetti, ma adesso cominciamo a respirare. E io mi sto trovando bene nel nuovo ruolo. Anche perché con papà e Gianetti ho le spalle coperte». Quando rivedremo una squadra italiana nel World Tour? «Nel nostro progetto questo non è previsto. L’idea è quella di promuovere la bici negli Emirati Arabi: loro si sono appoggiati all’esperienza italiana per portare il ciclismo anche da loro. E’ un Paese che ci ha chiesto sostegno per sviluppare la bici là, la bici intesa anche come esempio di vita più sana: è un progetto che ha base là ed è a lungo termine. E’ una grande responsabilità: il nome UAE non rappresenta uno sponsor, un’azienda, rappresenta un Paese, un Paese importante. In tutto questo però portiamo un po’ anche la bandiera italiana. Quanto agli altri team, non credo che sia impossibile rivedere una squadra italiana nel World Tour, anche perché sarebbe un peccato. Spero e credo che un marchio come Segafredo possa creare qualcosa di importante».
Il ciclismo è un bene di famiglia, una passione, un mestiere. Ma c’è qualcosa che Carlo Saronni non ama di questo sport? «Diciamo che il sistema non è perfetto, andrebbe rivisto: certe regole, i punteggi, una sorta di burocrazia che toglie qualcosa allo spettacolo e molto alla poesia». Nono Tour de France - e qui Carlo ha decisamente superato il primo Saronni - ma il ricordo più bello qual è? «Veramente sono due. L’anno della maglia verde di Petacchi, lo spirito che c’era in quella squadra. E la vittoria con Plaza, due anni fa, inaspettata. Ma il momento indimenticabile, quello più romantico, arriva a ogni Tour. La notte del trasferimento finale verso Parigi, quando noi dello staff, con il pullman, tutti i mezzi e le ammiraglie, ci fermiamo a dormire a metà strada. In genere ci sono sempre anche altre squadre. E la mattina ci si ritrova nel piazzale, si lavano i mezzi tutti assieme, ci si racconta, finalmente si scherza. Poi si riparte per Parigi. C’è il senso di aver fatto qualcosa di grande, e anche quello di una storia che finisce. Un’atmosfera bellissima, non vedo l’ora di esserci di nuovo».
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